Coesistenze quantiche. L’arte e la scienza nell’era dell’unimodernismo. di Antonio Rollo
Nell’ambito della realtà le cui connessioni sono formulate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono quindi ad una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere (all’interno delle frequenze determinate per mezzo delle connessioni) è piuttosto rimesso al gioco del caso. Werner Karl Heisenberg, Über quantenmechanische Kinematik und Mechanik, Mathematische Annalen, 1926
Quando il governo del Quebec (una provincia del Canada) propone, alla fine degli anni settanta, al consiglio universitario una ricerca sul sapere nelle società più sviluppare, il fenomeno delle reti digitali era già in uno stadio avanzato nel rapporto tra informazione e società. La rete nella forma amichevole in cui la conosciamo ed utilizziamo oggi era ancora lontana oltre un decennio dal world wide web ma già esprimeva il carattere universale di spazio pubblico per il flusso della conoscenza. Il computer era diventata la nuova macchina culturale, sociale, economica e politica di riferimento. Il rapporto finale diventerà una pubblicazione curata da Jean-Francois Lyotard dal titolo La condizione postmoderna[1] dove si affrontano una serie di problemi scaturiti dalla presa di coscienza che il sapere non è più l’esclusivo strumento del potere. Il sapere stesso può prendere diverse direzioni nel senso comune, in base a chi decide di legittimarlo per una precisa convenienza. Ma il consenso, come afferma lo stesso Lyotard, è un orizzonte, non è mai acquisito, anzi è attraverso il dissenso che si valicano le frontiere del paradigma corrente. La discussione sul vero e il falso della scienza, la definizione di giusto e sbagliato della politica si riflettono in una danza di parole sul sistema sociale. L’accesso alla conoscenza da parte di livelli sociali non elitari ha scombinato le regole dei giochi di governo. Se la fisica di Newton legittimava le guerre per il possesso di territori e materie prime, la fisica dopo Einstein legittima le guerre per il controllo dell’informazione. Ad alcuni figli del novecento industrializzato la meccanica degli orologi non impressionava più, la natura della natura, per citare Morin, si mostrava diversamente. Per gli altri, la maggior parte della società, che come in Italia si alfabetizzava solo a partire dagli anni sessanta, la natura era ancora idolizzata, la scienza era un pensiero sconosciuto, per la sua dimensione astratta, e l’arte funzionava solo come controllo dello spirito attraverso la dimensione del sacro. Cosa è successo in questo passaggio da una società orale ad una società alfabetizzata? In che maniera la scienza e l’arte coesistono nella percezione del contemporaneo? Qual’è la condizione delle nuove generazioni? Rispondere a queste domande è complesso ed il rischio è l’inadeguatezza nella ricerca delle risposte perché, come dice Morin, «ci insegnano, a partire dalle scuole elementari, a isolare gli oggetti (dal loro ambiente), a separare le discipline (piuttosto che riconoscere la loro solidarietà), a distinguere i problemi, piuttosto che a collegare ed interagire» e continua in nota «il pensiero che taglia, che isola, permette agli specialisti ed agli esperti di ottenere risultati eccellenti nei loro settori e di cooperare efficacemente in settori non complessi di conoscenza, specialmente in quelli che concernono il funzionamento delle macchine artificiali; ma la logica a cui essi obbediscono estende alla società e alle relazioni umane i vincoli e i meccanismi inumani della macchina artificiale, e la loro visione deterministica, meccanicistica, quantitativa, formalista, ignora, occulta o dissolve tutto ciò che è soggettivo, affettivo, creatore»[2]. Il passaggio dalla società rurale alla società alfabetizzata non è un processo concluso, ma è attivo in diverse aree del pianeta. Il motore di questa trasformazione è quello delle ruspe e delle motoseghe che per fare spazio ai disagi della civiltà alfabetizzata elimina per sempre, come un albero secolare abbattuto in pochi secondi, la diversità espressa da una micro tribù a favore di una “migliore condizione” di vita. Il problema è capire se la condizione migliore è proprio quella di un “pensiero che taglia” oppure quello di un “pensiero che unisce”. Ed anche se, decidendo di considerare giusto il pensiero che unisce, come si riflette sulla percezione del reale? Secondo la visione di Peter Lunenfeld, autore di un recente libro[3] in cui si introduce l’idea di unimodernismo - come un più giusto modello culturale rispetto al postmodernismo - il momento che stiamo vivendo è il frutto di un passato recente che, attraverso la bomba atomica e la televisione, ci porta a produrre e a consumare insieme al computer ed alle reti sociali. Inoltre se la bomba atomica e la televisione sono culture del secolo scorso, la condizione contemporanea della società iperconnessa a livello globale permette di creare - con spiega lo stesso Lunenfeld - «modernismo in tutte le sue varianti: “universale” attraverso la rete e il broadcast, “uniforme” nei suoi effetti, se non addirittura affetti, e “unitario” in termini di esistenza come stringhe di codice». Ed è proprio in questa nuova prospettiva, in cui il computer e le reti sociali online sono la macchina culturale di riferimento, che ci troviamo ad essere scaricatori - downloader - e caricatori - uploader - di informazioni. Educati dalla televisione a scaricare in forma monodirezionale, non stiamo ancora utilizzando internet in quanto strumento multidimensionale. La maggior parte delle informazioni che abbiamo caricato online sono lo specchio sia di una progressiva perdita della privacy a favore di nuove multinazionali con modelli di business basati sul digital labour non retribuito, sia di una progressiva fiducia nei gingilli tecnologici a favore della nuova industria dei computer mobili con modelli di business dipendenti dalla capacità di mass communication del marchio. La natura multidimensionale di internet sta facendo comunque germogliare nuovi comportamenti umani in termini di produzione artistica e scientifica. La definizione del sapere è diventata una questione globale in cui si confrontano nuove generazioni nate con il computer e vecchie generazioni che lo hanno visto arrivare, come una bomba atomica in televisione, a partire dagli acquariani anni sessanta. Sicuramente la bomba atomica e la televisione hanno contribuito alla transizione dall’orale alla scrittura e lettura, portando ad una progressiva semplificazione delle immagini in segni alfabetici. Segni che con il calcolatore universale sono stati ridotti al minimo (0/1, vero/falso, giusto/sbagliato) per aumentare l’efficienza logica delle macchine calcolatrici. L’efficienza logica ha origine nella necessità di controllare sistemi e società che, evolvendosi nel tempo e nello spazio, aumentano il proprio grado di complessità. Martin Davis, nel suo Il calcolatore universale fa risalire l’efficienza logica degli attuali computer ad una “idea meravigliosa” avuta da Leibniz nel «creare un alfabeto speciale, i cui elementi non stessero per suoni ma per concetti»[4]. Passando attraverso la logica di Boole, il figlio di un calzolaio che ritratta il pensiero alfabetico con segni matematici, arriviamo alla meta matematica di Hilbert che pone tra i suoi infiniti problemi anche quello che, nella ricerca di una soluzione, porterà un giovanissimo Turing a concepire una macchine logica «capace di fare da sola il lavoro di tutte». Questa macchina logica universale è il computer che oggi funziona con atomi di silicio “drogato” in grado di calcolare numeri astronomici, controllare flussi di energia, archiviare qualsiasi dato esprimibile in forma di bit e comunicare alla velocità della luce. Il computer, con le sue quattro funzioni (calcolo, controllo, archivio e comunicazione)[5] presenta una nuova frontiera alle strategie industriali e commerciali ed alle strategie militari e politiche che devono adattarsi alla progressiva obsolescenza del pensiero meccanico, sostituito dal pensiero che unisce dell’informazione digitale che è universale (una macchina che può fare il lavoro di tutte le macchine), unitaria (nell’effetto del programma) ed uniforme (nel linguaggio utilizzato). Le reazioni dell’era unimoderna sull’arte e la scienza si mostrano come processi di ibridazione - innesti naturali - che danno linfa a nuovi rami della conoscenza e dell’esperienza. In una dissertazione sulle relazioni possibili tra creatività e frontiera[6], Arthur Danto mette in chiaro i passaggi che, dall’oralità all’alfabeto, hanno visto trasformare le attività artistiche. Prima di Duchamp ed Einstein, l’arte aveva una sola frontiera, quella della mimesi della natura, dopo, nel novecento, gli artisti e gli scienziati hanno cominciato ad emanciparsi dal potere, aprendo a molte frontiere di ricerca cristallizzate negli ismi del secolo scorso. Le bombe atomiche e la televisione hanno, come Warol ha personificato nella sua vita e nel suo lavoro, aperto la strada, proprio negli psichedelici anni sessanta, verso l’esplorazione di qualsiasi frontiera. La strada che oggi stiamo percorrendo è tracciata, per dirla alla Debray, sul sentiero del “visivo” in cui «il tubo catodico ci ha fatto passare dalla proiezione alla diffusione, o dalla luce riflessa dall’esterno alla luce emessa dallo schermo. La televisione rompe l’immemorabile dispositivo comune al teatro, alla lanterna magica e al cinema, contrapponendo una sala oscura a una rivelazione luminosa. L’immagine qui ha la propria luce incorporata, rivela se stessa. Originandosi in se stessa, eccola, ai nostri occhi, “causa di sé”. Definizione spinoziana di Dio o della sostanza. Se ogni proiezione presuppone un protezionista esterno allo schermo, e dunque uno sdoppiamento, l’immagine catodica fonde i due poli della rappresentazione in una sorta di emancipazione delle cose stesse, dal momento che il pixel indica di per sé la struttura quantistica dell’universo»[7]. Sulla strada del visivo si è incanalata l’intera produzione culturale dell’occidentale. La scienza visualizza ad alta definizione ed in tre dimensioni il genoma umano e la particella di Dio, l’economia visualizza complessi grafici in tempo reale, l’arte visualizza sugli schermi del computer tutti gli altri schermi fino a quel momento a disposizione (pietra, tessuti, carta e corpo), la società visualizza se stessa con le sue passioni, speranze, azioni, perversioni, deviazioni, singolarità e leggende. Inoltre con il computer digitale il pixel si mostra non solo come unità minima di un’immagine su uno schermo, ma come parte di un sistema visivo che sa di essere guardato. Il computer ha fagocitato gli strumenti culturali moderni della stampa, del telefono, della radio, della televisione, della fotografia e del cinema, digerendoli in un complesso ibrido interattivo. L’arte e la scienza coesistono nell’unimodernismo, delle reti sociali connesse attraverso lo schermo interattivo, nella forma quantica di compresenza di programmatore e programmato, di attore e spettatore, di osservatore ed osservato, senza, peraltro, sfuggire all’indeterminatezza di Heisenberg che porta ad accettare una perdita di informazione nel momento in cui ci focalizziamo su un’aspetto piuttosto che sull’altro. Abbiamo bisogno di coltivare uno sguardo multidimensionale per esistere nell’epoca unimoderna. Le condizioni in cui il presente consegna il futuro alle prossime generazioni sono profondamente incerte. Condizioni precarie nello stato del pianeta martoriato da un sistema industriale che ha innescato l’illusorio bisogno del consumo di oggetti fuori di sé[8]. Condizioni precarie nello stato di salute mentale della maggioranza dei giovani, costantemente spinti a specchiarsi nella televisione, cinema e riviste che mostrano, soprattutto in Italia, soltanto cazzetti e fighette. La società della conoscenza in cui crediamo di vivere, costantemente interconnessi, è nella realtà dei territori locali una condizione precaria di reciproco allentamento emotivo da persona a persona, e da persona a natura. Il villaggio globale è collassato nell’isolamento isterico della città cibernetica. Ci aspettiamo di più dalle tecnologie che non dagli uni agli altri[9]. Le vibranti piazze dei paesi del Sud sono state svuotate e i pochi ragazzi rimasti si parlano addosso come in una trasmissione calcistica mentre le ragazze fumano una sigaretta di sessantottina emancipazione, tutti rispondono però, con pollici veloci, al bip che annuncia l’arrivo di un nuovo sfavillante messaggio corto - sms - sullo schermino del cellulare. Inoltre, quasi tutti abbiamo un profilo digitale, se non proprio attivo tra le reti sociali online, almeno memorizzato in un qualche data base governativo o aziendale. Con le reti sociali online abbiamo realizzato il sogno dell’ubiquità, possiamo esistere contemporaneamente in più spazi sociali e riusciamo a comunicare senza limiti di prossimità fisica. La frontiera dell’uniquità digitale sta mostrando, ora che cominciamo ad esplorarla, una serie di nuovi rischi e pericoli. Uno di questi è il “diabete culturale”, intravisto da Lunenfeld, nell’eccessivo scaricaggio - download - di informazioni dalla rete non bilanciato da un rispettivo caricaggio - upload. Essere in grado di cercare e ricercare nuova conoscenza continua ad essere una delle sfide originali dell’umanità. Il desiderio di ricerca è il bisogno di sentire il mondo, di conoscere la natura, di raccontare all’altro l’esperienza del presente. Molto spesso dimentichiamo che i bambini sono lo specchio più chiaro della nostra esistenza. I bambini metropolitani non conoscono il cielo stellato ma bevono il latte in polvere di qualche multinazionale. Nel mondo occidentalizzato in cui i governi investono su farmaci psicoattivi per tenere a bada bambini stressati dall’incertezza degli adulti, è complesso immaginare la natura del prossimo futuro dell’esistenza umana. In nome del dio denaro troppe persone hanno perso la bussola dell’esperienza del sé e dell’altro fuori di sé. Il governo di cose e persone, re e regine che si spostano su un’inaspettata scacchiera ruotata, distorta, copiata e incollata come in un’opera cubista, ha condotto la classe dominante - il management finanziario - a chiedere alle masse di consumare e di consumarsi in città pensate su architetture luccicanti e cibi di plastica. Nella grande città quello che hai in banca è solo lo specchio di quanto hai tolto all’anima del mondo. Nella società della conoscenza dove oltre un miliardo di persone abitano in barconi urbani ormeggiati sul mare di internet, assistiamo ad un sentimento nuovo e globale di appartenenza alla famiglia umana. I grandi disastri generati dai capricci di assestamento delle zolle di Pangea corrono alla velocità della luce lungo il pianeta. Le informazioni sul maremoto del Giappone, il terremoto dell’Aquila, lo Tzunami tailandese, l’attesa del Big One sulla Faglia di Sant’Andreas viaggiano in forma di bit lungo il rizoma di internet e la piramide televisiva, e diventano pungiglione emotivo per chi le riceve. Nella condizione pre elettrica avevano imparato a ricordare i grandi disastri naturali del proprio territorio con sacri rituali. Oggi impariamo a dimenticare il più in fretta possibile per fare posto al prossimo flusso di informazione da scaricare. La condizione post moderna con l’abuso (senza limiti né etici né estetici) dell’immagine è partecipe di un’azione riconfigurante sul sistema neurale alla base dei nostri pensieri e dei nostri sogni. Siamo quello che vediamo e ascoltiamo. Siamo diventati un corpo senza pelle sensibile. Saremo padri e madri farmacologicamente deviati, saremo i genitori che si sono specchiati nel nulla del nulla televisivo[10]. Così come la macchina culturale televisiva ha generato isolamento, il computer, l’attuale macchina culturale, sta seminando solitudine. I cittadini diventano schiavi di un sistema perverso che li obbliga a cercare un lavoro per produrre oggetti materiali e immateriali che servono ad alimentare la formula magica della creazione di moneta dal nulla. Ignara del funzionamento del denaro e martoriati da immaginari visivi prodotti in massa sui media di comunicazione, la società civile non tocca più il denaro con le mani. Ci siamo mai chiesti come accade tutto questo? Una zona del cervello è bravissima ad attivare sensazioni sul corpo in risposta a quanto succede ad un mio simile. I neuroni specchio abitano il territorio del rizoma cerebrale capace di avviare un intenso scambio di informazioni tra quello che si vede e quello che si percepisce. Se la mia compagna ha paura dei ragni, ed un ragno le cade sul braccio, di riflesso i neuroni specchio riescono ad interferire sul mio apparato sensorio, provocando su di me - in tempo reale - la stessa reazione. Dall’invenzione della scrittura, la nostra attitudine[11] di mimesi con quello che vediamo non è cambiata di molto. In conclusione, la strada del visivo che stiamo percorrendo nell’era unimoderna attraversa territori selvaggi che richiamano all’osservazione ed all’invenzione per riuscire a sopravvivere. In questo viaggio, la coesistenza quantica di più livelli di percezione della realtà ci può aiutare a comprendere il presente. L’arte e la scienza possono essere gli strumenti per rendere sicuro il cammino, ma fino a che punto siamo disposti ad emozionarci di fronte allo sconosciuto?
Note __________________________
1 Jean-Francois Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, 1985
2 Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, 2000
3 «La cultura della macchina è stata originariamente designata come "finale" nel "postmodernismo". L’estetica del collage, il decentramento e l’offuscamento sia dell’autore sia dell’autorità, i quali sono stati generati dal computer in rete, sembravano calzare a meraviglia a coloro che avevano visto la fine dell’alto modernismo che veniva sostituito dal postmodernismo. Ma direi che invece di primo, alto o post, noi produciamo e consumiamo un "unimodernismo". Il nostro momento è unimoderno nel senso che crea modernismo in tutte le sue varianti: "universale" attraverso la rete e il broadcast, "uniforme" nei suoi effetti, se non addirittura affetti, e "unitario" in termini di esistenza come stringhe di codice. Nell’era unimoderna - come bit, online ed in database - una foto è un dipinto è un’opera è un brano pop». Peter Lunenfeld, The secret war between downloading & uploading. Tales of the computer as a culture machine, MIT Press, 2011, p. 39
4 Martin Davis, Il calcolatore universale, Adelphi, 2000
5 Curnow e Curran, Il primo libro di informatica, Bollati Boringhieri, 1987
6 Arthur C. Danto in Mary Jane Jacob e Jaqueline Baas, Learning Mind, Experience into Art, University of California Press, 2009
7 Regis Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Editrice il Castoro, 1998
8 «L’alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della sua stessa attività incosciente) si esprime così: più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, 1997, p. 63
9 Scherry Turkle, Alone together, why we expect more from technologu and less from each other, MIT Press, 2012
10 «Da quando la medicina e l’igiene hanno fatto diminuire la mortalità infantile, le uniche barriere rimaste contro la sovrappopolazione (a parte il controllo delle nascite) sono la guerra e le carestie». John B.S. Haldane, Bertrand Russell, Dedalo o la scienza e il futuro. Icaro o il futuro della scienza, Bollati Boringhieri , 1991, p. 59
11 «L’attitudine è la nostra personale prospettiva del nostro essere e delle nostre circostanze - il nostro angolo sulle cose, la nostra disposizione e il nostro punto di vista emozionale. Molte cose interferiscono con la nostra attitudine, incluso il nostro carattere di base, il nostro spirito, la nostra auto stima, la percezione di chi ci sta accanto e le loro aspettative su di noi. Un indicatore interessante sulla nostra attitudine di base è come pensiamo il ruolo della fortuna nelle nostre vite. Persone che amano quello che fanno, spesso si descrivono come fortunate. Persone che pensano di avere successo nella vita spesso dicono di essere state sfortunate. Incidenti e casualità giocano un ruolo fondamentale nella nostra vita. Ma c’è molto di più oltre la fortuna. Chi riesce a realizzarsi condivide attitudini simili, come la perseveranza, il credere in sé stessi, l’ottimismo, l’ambizione e la frustrazione. Come percepiamo le nostre circostanze e come noi creiamo e cogliamo le opportunità dipende in larga misura in cosa ci aspettiamo da noi stessi». Ken Robinson, The Element. How finding your passion changes everythings, Penguin Books, 2009, p. 24