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Ologrammi

Con la nascita del linguaggio abbiamo sviluppato attraverso generazioni di sperimentatori, un nuovo programma scritto nel codice del dna capace di astrarre l’uso degli strumenti per costruire altri strumenti e di ricordare come ci siamo riusciti. Nel cervello non ci sono precise aree che possiamo dire specializzate per la memoria, lo stesso vale per quelle relative ai cinque sensi, non c’è un posto preciso nel cervello in cui è registrata la faccia di un nostro amico. Viene ricordata come un reticolo di energie sinaptiche. La memoria utilizza un metodo distribuito, non lineare, di registrazione e accesso alle informazioni assimilabile ai modelli distribuiti usati per realizzare un ologramma. Il concetto di ologramma ha portato ad una spiegazione più comprensibile dei processi della mente.

Nonostante le crescenti prove che i ricordi erano distribuiti, Pribram non sapeva comunque spiegarsi come il cervello potesse compiere una prodezza [la memoria] che appariva magica. Poi, verso la metà degli anni Sessanta, un articolo letto su Scientific American che descriveva la prima costruzione di un ologramma lo colpì come un fulmine. Non solo il concetto olografico era folgorante, ma forniva inoltre una soluzione all’enigma con il quale stava lottando.1

Karl Pribran (1919), neuro chirurgo viennese, aveva osservato uno strano comportamento nei suoi pazienti dopo diverse operazioni di esportazione medica di parti del cervello: nessuno mostrava gravi perdite nell’accesso ai ricordi. Quindi la memoria doveva essere registrata nel cervello non in un’area specifica, ma in qualche modo distribuita nella rete in maniera che l’accesso non fosse gestito da una porzione di cervello ma dall’organizzazione emergente della rete stessa.
Un ologramma è un sistema che utilizza il laser, luce pura, per imprimere su una lastra fotografica speciale (ad alta risoluzione) un’immagine a tre dimensioni. Ovviamente la terza dimensione è illusoria ed esiste solo quando la guardiamo. L’altra caratteristica speciale dell’ologramma, potete provare voi stessi con quello stampato su una vecchia carta di credito, è di non essere divisibile come quando strappiamo una fotografia o una pagina, ovvero ci ritroviamo con due parti dell’intero. Piuttosto quando spezziamo a metà un’immagine olografica otteniamo due nuove immagini identiche, soltanto ad un risoluzione più bassa. La magia, scoperta dal matematico ungherese Dennis Gabor che ricevette il premio Nobel nel 1971, era l’olografia e si basa sul fenomeno fisico dell’interferenza ottica. In pratica ogni punto della lastra fotografica contiene l’informazione di tutta l’immagine. Quello che viene registrato non è l’immagine, ma le configurazioni di interferenza prodotte «quando una singola luce laser viene divisa in due raggi separati. Il primo raggio viene diretto sull’oggetto che deve essere fotografato. Poi si lascia collidere il secondo raggio con la luce riflessa del primo»2. Il risultato finale dell’immagine tridimensionale, come memoria olografica dell’oggetto, esiste solo quando noi lo guardiamo, ovvero creiamo una relazione tra la luce impressa e il nostro sistema visivo. Le informazioni registrate sulla lastra fotografica disegnano uno stagno di onde che interferiscono una sull’altra fino a stabilire uno stato di significazione della realtà. Il processo assomiglia alle onde di una pietra gettata nell’acqua di un placido laghetto. Poi se ne lancia un’altra ed un’altra ancora. Le onde che si allontano concentricamente dall’impatto tra la superficie e la pietra si accavallano a quelle della successiva formando una complessa armonia di cerchi che si toccano, si moltiplicano, si sommano e si spostano in ogni direzione. Allo stesso modo sembra che la memoria e la vista elaborano i ricordi, i sogni e le visioni.
L’intricata rete di connessioni neurali è continuamente attraversata da impulsi elettrici simili alle pietre lanciate in uno stagno e le increspature (interferenze) assumono un comportamento indipendente dalle onde che le hanno generate (ad esempio la somma delle due onde che generano l’interferenza non è la somma algebrica che conosciamo, in pratica in questo territorio ondulato 1+1 non fa 2). Un esempio di interferenza nella memoria umana è il ricordo e la sensazione reale di crampi, dolori e pruriti misteriosamente realistici in un arto amputato (illusorio), «ma forse ciò che sperimentano – questi individui – è la memoria olografica dell’arto che è ancora registrata negli schemi di interferenza dei loro cervelli»3.

Creare l’illusione che le cose siano localizzate dove non lo sono è la caratteristica quintessenziale di un ologramma. Come già detto, se osservate un ologramma, esso sembra estendersi nello spazio, ma se passate la mano attraverso scoprirete che non vi è nulla in quel punto. Malgrado ciò che i vostri sensi vi dicono, nessuno strumento rileverà la presenza di alcuna energia o sostanza anormale dove l’ologramma sembra essere sospeso. Questo avviene perché un ologramma è un’immagine virtuale, un’immagine che sembra essere dove è, e non possiede più estensione nello spazio di quanta ne abbia l’immagine tridimensionale di voi stessi che vedete quando vi guardate allo specchio. Proprio come l’immagine nello specchio si trova nell’argentatura sulla superficie posteriore dello specchio, l’effettiva locazione di un ologramma è sempre nell’emulsione fotografica sulla superficie della pellicola che lo registra4.

Bibliografia
1 Michael Talbot , Tuttio è uno. L’ ipotesi di una scienza olografica, Corrado Leonardo, 2004, p. 200
2 Michael Talbot , Tuttio è uno. L’ ipotesi di una scienza olografica, cit., p.21
3 Michael Talbot , Tuttio è uno. L’ ipotesi di una scienza olografica, cit., p.31
4 Michael Talbot , Tuttio è uno. L’ ipotesi di una scienza olografica, cit., p.31

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